The Wall – Il muro siamo noi

16 Febbraio 2016

The Wall non è un disco, un film o un’opera teatrale. The Wall è la storia di Roger Waters, un uomo che ha avuto il coraggio di scavare in profondità, attraverso lividi e ferite forse non ancora cicatrizzate. Ha scavato con cura, per tentare di riempire il grande vuoto che sentiva dentro, per trovare qualcosa in grado di abbattere quella serie infinita di mattoni bianchi. Il tempo gli è stato clemente, e la vita ha risposto con un’idea, che lui ha saputo immortalare e incidere su nastro.

L’album fisico è la naturale conseguenza di tutto questo, lo riporta a far memoria di chi è e di chi è stato. The Wall è per lui la vecchia fotografia incorniciata che si può trovare nelle stanze di casa, in grado di farci rivivere il nostro passato e di non farcelo dimenticare mai.

Il processo di ricerca interiore dell’artista e la seguente contestualizzazione storica derivano dal forte disagio esistenziale di una vita isolata, dovuto essenzialmente ad una forte paura del mondo e al trauma della morte del padre, durante la Seconda Guerra Mondiale. Questa grande difficoltà ha creato in Waters un forte blocco psicologico, che è riuscito a comprendere e convertire in arte, grazie anche all’aiuto creativo degli altri tre “Floyd”.

Waters apre il sipario di questo bellissimo palcoscenico – un palcoscenico che è la sua vita – e inizia a raccontare, partendo dai primi mesi di vita. È qui che fa i conti con il passato, affrontando tutte le difficoltà ed i ricordi legati alla madre e al padre. Il rapporto madre-figlio descritto, che viene tutt’ora studiato da psicologi della corrente freudiana, è infatti sviscerato fino all’osso, poiché riesce a far comprendere all’ascoltatore l’esasperato istinto di protezione della madre nei confronti di Roger dopo la morte del compagno, dovuto alla paura che il mondo esterno lo possa portare via dalle sue braccia. Le immagini ricorrenti descritte nelle prime canzoni, come le “bombe” ed il “nemico senza volto”, non sono altro che quella paura, che viene personificata per dare l’idea di una sensazione pericolante concreta.

La traccia numero sette dell’album, Goodbye blue sky, serve a chiudere il capitolo dell’adolescenza a cui l’autore è particolarmente affezionato. Non mancano infatti riferimenti al dolore e alle ansie dovute a questo cambiamento; nella prima parte del testo, in cui dice: “The flames are all long gone, but the pain lingers on”, si può notare la piena consapevolezza di Roger della grande cicatrice presente nella sua anima; un dolore che ha già compromesso la sua capacità di essere felice.

Da qui inizia un viaggio nella mente dell’autore, dove vengono espresse le grandi paure dovute alla sociopatia e al rapporto con l’ex moglie. Il processo di ‘riabilitazione’ è molto travagliato e vede la sua conclusione in una “visita dal dottore”, raccontata in Comfortably Numb. Il senso di rassegnazione al dolore dell’autore lo porta a ripensare alla vita nel suo insieme (in The show must go on), per poi chiedere aiuto alle anime uccise dal mondo: le grida disperate vengono sostituite da un coro, che rispecchia la grande fragilità di Waters. Parla al padre, chiedendogli di riportarlo a casa; poi alla madre, chiedendole di lasciarlo andare. Dietro a queste parole non si trova la voglia di porre fine alla vita, bensì di trasformarla: un’ultima estrema richiesta di aiuto.

Negli ultimi brani, in cui vengono descritti i massacri della Notte dei Cristalli e delle fughe ebree, vi è una sorta di riconciliazione con il male, che sfocerà poi in presa di coscienza che quel male si potrà sconfiggere solo con la comprensione.
Qui Waters esce dal muro, scrivendo l’ultima pagina di questo libro meraviglioso, in grado di influenzare indirettamente tutta la società adolescenziale che si occupava di musica.

Negli anni Sessanta e Settanta, infatti, l’introspezione non era un’azione ricorrente, poiché, tra la guerra in Vietnam e altri fenomeni sociali, si tendeva a fare della musica un mezzo di sfogo nei confronti di una società ed una politica ingiusta. È solo dopo The Wall che si nota un significativo mutamento delle tematiche, dei testi e delle sonorità: l’adolescente si avvicina a sonorità più cupe, accompagnate da testi altrettanto malinconici, e conseguentemente nascono nuovi generi musicali che hanno dato spunto alla creazione di tantissima musica.

Mi viene in mente il movimento New Wave, divenuto famoso nei primi anni Ottanta, che ha unito il senso di rabbia musicale del punk-rock ad una scelta delle tematiche ed una strutturazione dei testi molto simile a quella adottata da Waters per The Wall. Il processo che è avvenuto è qualcosa di molto naturale, poiché, anche se spesso non veniva esplicato, il senso di paura e solitudine era molto frequente, viste le condizioni politiche e sociali ancora troppo instabili.

Oltre al significato intenso, la contestualizzazione dell’opera ha permesso un forte impatto negli spettacoli live proposti al pubblico, al contrario di ciò che viene invece percepito all’ascolto del disco. L’evocazione della guerra ha consentito la creazione di una scenografia mastodontica, fedele alla grafica e alle illustrazioni del disco, oltre che alle emozioni che esso suscita.

La presenza di comparse umane e non solo ha fatto sì che il concetto di paura e solitudine, che normalmente viene visto come disagio introspettivo, venisse amplificato e fatto sentire con prepotenza. Il musicista diventa così parte integrante della scenografia, disponendosi dietro al muro su cui vengono proiettate immagini forti e denunce sociali alle multinazionali che, secondo l’autore, causano danno alla cultura e alla liberà dell’uomo.

Se parliamo di rivoluzioni, non possiamo non citare quello che è successo a Berlino quando, nel Luglio del 1989, Waters è stato intervistato alla trasmissione radiofonica In the Studio with Redbeard affermando che quel concerto, così tanto atteso, avrebbe avuto luogo solo nel momento in cui il muro sarebbe crollato. Quattro mesi dopo, mentre la Germania stava preparando un piano di riunificazione dello Stato, in seguito alla caduta del muro di Berlino, Roger Waters suonava davanti al mondo intero la sua stessa vita messa in musica, con l’aiuto di grandi artisti di successo come Sinead O’ Connor, The Skorpions, Brian Adams, Cyndi Lauper e molti altri.

Oggi Roger Waters è ancora in attività e continua a proporre lo spettacolo di The Wall in tutto il mondo. Nei giorni di pausa ama suonare la tromba nel cimitero dove riposa la sua famiglia, sostenendo che anche le anime morte hanno bisogno di musica per dormire sonni tranquilli.

Se penso all’idea che sta alle base di quest’opera, non posso non inserirla tra le più grandi che la musica moderna (e non solo) abbia avuto l’occasione di conoscere. The Wall è musica, teatro, arte figurativa, poesia, letteratura e psicologia, ma più di tutto è la prova concreta che il genio umano ha un potenziale infinito, capace di costruire e abbattere muri alti come grattacieli, composti da mattoni di dolore, lividi e ricordi, che ci portano a capire, in un modo o nell’altro, che la vita stessa è l’esperienza più bella del mondo.
Francesco Ceriani
studente HND in Music