Un rapido sguardo alla correlazione tra arte e mondo globale
Negli ultimi vent’anni il progresso tecnologico ha portato l’industria creativa ad un livello mai sperimentato prima. Il cambiamento ha riguardato tutti i settori dell’arte, ma il mondo musicale è forse quello che è cambiato maggiormente.
I fattori che hanno contribuito a questa evoluzione sono principalmente tre: il primo è Internet, che ha permesso uno scambio di dati pressoché immediato da una parte all’altra del mondo. Il secondo è lo sviluppo tecnico: nel 2000 ci saremmo mai immaginati le potenzialità di un iPhone X del 2019? Il terzo fattore è la modalità di fruizione della musica: solo dieci anni fa i servizi di streaming audio non esistevano, ora sono il maggior introito dell’industria.
Andiamo un po’ più in profondità a scoprire questi elementi, che sono legati tra di loro a doppio filo. Com’è cambiato il mondo musicale grazie ad Internet?
Sicuramente la rete globale ha portato innovazione e opportunità: nel 2019 è normale lavorare su un prodotto musicale a distanza. Il cantante con cui collabori vive a New York? Un WeTransfer con la base musicale ed il gioco è fatto, entro sera puoi avere la traccia vocale e iniziare a mixare. Dal punto di vista artistico è eccezionale vedere la propria canzone che gira il mondo, e la musica, in senso assoluto, guadagna dall’incontro di culture ed esperienze diverse. L’altra conseguenza, positiva o negativa a seconda della chiave di lettura, è l’influenza globale in cui siamo immersi: molto più che in passato, quello che succede nel mondo ci raggiunge in fretta e modifica i nostri gusti e i nostri ascolti. È positivo, perché incoraggia gli artisti a cambiare e ad evolversi, ma è anche rischioso perché tra influenza e bombardamento il passo è breve, e avere tanti input non è sempre sinonimo di produrre tanti output.
Anche i social network, a tutti gli effetti appendici di Internet, hanno giocato un ruolo incredibilmente importante nel nostro modo di recepire le informazioni. Secondo la University of South California, i giovani che sono stati più esposti ai social media hanno più probabilità di sviluppare forme di deficit dell’attenzione.
Prendiamo il dato che ci interessa: l’attenzione media per ogni informazione è scesa fino a 8 secondi, un numero incredibilmente basso. Ecco che ogni informazione, per catturare l’attenzione, deve essere molto incisiva. La musica reagisce di conseguenza: sapete quanto durava in media una intro (inizio del brano, prima che arrivi la componente melodica) negli anni ’80? Circa 20 secondi, a differenza dei 5 secondi del 2018. Tutto e subito potrebbe essere la sintesi di questi concetti. Personalmente credo che siano tutte cose positive per la musica, che trova in questi elementi nuove spinte al cambiamento. È sicuramente difficile apprezzare il nuovo che avanza, soprattutto se il vecchio ci piaceva tanto, ma ricordiamoci che Elvis Presley veniva considerato indecente e oggi lo ricordiamo come l’icona degli anni ’50 (e ricordiamoci anche i mitici Doors, cacciati dal Whiskey A Go Go perché Morrison pronunciò la fatidica frase “Father, I want to kill you, mother, I want to fuck you.” Credo non serva tradurre). E quindi oggi ci mettiamo a discutere su quale sia il cantante trap più odioso, e ci verrebbe perfino voglia di rivalutare Skrillex, insultato in tutte le salse per la sua dubstep, che invece aveva davvero portato una ventata di aria fresca nella musica elettronica di consumo.
Per rispondere alla domanda introduttiva, credo che tutti siano ancora in grado di riconoscere la bellezza. È il concetto di bellezza che cambia, cambiano i canoni e cambiano le generazioni deputate a definire il bello (quanto sono cambiati i gusti dal 2000 al 2019? Dai Lunapop a Sfera Ebbasta? Io, essendo un ragazzo della generazione che ascoltava i Lunapop, non posso che adeguarmi ai nuovi gusti dei ragazzi di oggi. E lo faccio con piacere, perché mi rendo conto che nemmeno i Lunapop erano così bravi, ma mi piacevano un sacco.)
Il secondo fattore, lo sviluppo tecnico, riguarda un bacino molto ampio di cui anche Internet fa parte. In generale, tutte le tecnologie necessarie per produrre e distribuire musica hanno fatto un incredibile balzo in avanti e sono diventate sempre più accessibili. Ciò ha consentito ad una fascia più ampia di popolazione di produrre autonomamente la propria musica. Si tratta di un cambiamento positivo, che rende la musica più democratica e accessibile a tutti. Ovviamente, come in tutti i cambiamenti, c’è il rovescio della medaglia: anche chi non ha niente da dire ha la possibilità di farlo. Tornando alla domanda iniziale: siamo in grado di riconoscere la bellezza?
Ancora una volta, sì. Ma la seconda domanda, che fa anche un po’ paura, è: abbiamo voglia di riconoscerla o siamo troppo pigri per farlo?
Tutto questo sviluppo tecnologico nella fase produttiva non avrebbe influito così tanto se non si fosse evoluto anche il modo in cui si fruisce della musica. In un mercato globale come quello odierno, chiunque può spendere 10 euro su TuneCore per caricare il proprio brano su Spotify e raggiungere, potenzialmente, ascoltatori in Australia o in Islanda.
In questi ultimi anni di cambiamenti sostanziali c’è stata l’impressione che una parte dell’industria discografica, quella delle major, non sia riuscita ad affrontare le sfide poste dall’innovazione, accumulando un enorme ritardo. Nel 1999 arrivò Napster, servizio internet che permetteva agli utenti di condividere online la loro libreria musicale, rendendola disponibile a tutti. Le major, per quanto fossero nel giusto, si concentrarono sulla guerra alla pirateria invece di interrogarsi sulle cause scatenanti e su come fosse possibile contrastarla in maniera costruttiva. Questo permise ad una fetta molto importante del mercato, quella delle etichette indipendenti, di avvantaggiarsi per l’arrivo dell’era digitale.
Al contrario le major, sottovalutando le potenzialità del mondo digitale, stipularono contratti svantaggiosi con i servizi di streaming, come YouTube. Contratti che oggi sono carta straccia, considerando che YouTube vanta quasi 2 miliardi di utenti attivi ogni mese, e generano profitti troppo bassi per gli aventi diritto (circa dieci volte più bassi di quelli generati da altri servizi di streaming come Spotify o Apple Music).
Questo problema, chiamato value gap, è all’ordine del giorno per tutti gli organi legislativi che si occupano di copyright. Sarà necessario costruire un rapporto migliore tra creatori di contenuti e servizi di streaming: i cosiddetti creators, quelli che veramente ci rimettono, siamo tutti noi. Ogni volta che pubblichiamo il video di una nostra canzone, creato con fatica e sacrifici, dobbiamo sapere che c’è qualcuno che non sta riconoscendo il nostro lavoro.
E la colpa non è di YouTube, che dal canto suo sta solo difendendo gli interessi di un’azienda, ma delle case discografiche e degli editori, che non stanno tutelando il lavoro dei propri autori. Nel grafico, l’impietosa differenza tra i servizi di audio streaming (a sinistra) e di video streaming (a destra).

Per la terza ed ultima volta, ci poniamo la stessa domanda: siamo ancora in grado di riconoscere la bellezza? Forse siamo stati portati a non darle più importanza, a preferire una serata in discoteca a base di alcol piuttosto che un concerto di un artista da scoprire. Ma la bellezza è sempre lì, adagiata nel nostro intimo e pronta a risplendere. E tutti noi dobbiamo avere la forza di andarla a cercare e di sorprenderci ogni volta. Dobbiamo riscoprire le nostre passioni e crederci completamente, e farlo per amore.
Ogni giorno dovremmo ascoltare proprio quell’artista che non ci piace per niente, la canzone più brutta che abbiamo mai sentito, quella che ci fa piangere e quella che ci fa incazzare, e dobbiamo capire perché ognuna di quelle canzoni ha trovato un posto nel mercato. Nel momento in cui troveremo quell’elemento vincente, avremo scoperto un pezzettino di bellezza in più. Se invece ci fermiamo ad ascoltare sempre ciò che ci piace, non ci piacerà mai nient’altro. E quindi il mio invito è quello di rivalutare tutti i giorni la bellezza, e scoprire che Amore e Psiche del Canova porta al suo interno la stessa bellezza di un brano di Childish Gambino o di un quadro di Turner.
Concludo con una frase significativa che mi ha colpito particolarmente di Claudio Ferrante, ex Carosello, ora presidente di Artist First:
Oggi mancano i talent scout di una volta che andavano a vedere i ragazzi suonare. Non ci sono più quei momenti in cui magari due case discografiche volevano un artista e se lo contendevano. Manca questo, manca la passione, l’amore per quello che si faceva, la determinazione, il dire voglio prendermelo, voglio firmarlo. Ritrovate la passione.