Il paradosso indiependente

23 Febbraio 2019

Stava iniziando la primavera del 2010 quando un amico mi portò per la prima volta ad un concerto di musica cosiddetta indie. Non avevo mai sentito quel termine, e conoscevo a malapena il gruppo che avrebbe suonato quella sera in un centro sociale sperduto nel Trentino: i Ministri. Il concerto fu pazzesco, eravamo pochissime persone, eppure il cantante alla fine si è tuffato sul pubblico come se avesse avuto davanti una folla enorme. Più tardi ho scoperto che lo stage diving è una costante nei loro concerti. Quell’esperienza ha fatto nascere in me la curiosità di esplorare quel mondo vastissimo e allora piuttosto sconosciuto che era il panorama “indie” italiano. Uso volutamente le virgolette perché ad oggi, nove anni dopo, ho compreso che quel termine, in quel contesto, in realtà non ha senso.

Goo, uno dei dischi più influenti per la nascita di questo genere musicale

Il termine indie altro non è che una storpiatura della parola indipendent, e viene usato per indicare tutto quel filone di musica che parte dai Sonic Youth e arriva agli Arctic Monkeys passando attraverso nomi più improbabili come Clap Your Hand Say Yeah o Death Cab For Cutie. In pratica si tratta di ciò che il 2000 ha sputato fuori dopo l’esperienza post punk / garage rock / grunge / alternative tra la fine degli anni ’80 e l’intera decade successiva. Tecnicamente parlando, la musica indie dovrebbe essere quella prodotta senza passare attraverso le tre major, viste come i tre mostri orribili dell’industria musicale, ovvero Universal, Sony e Warner. Perché uso il condizionale? Perché la storia ci insegna che quasi tutti questi gruppi, in un modo o nell’altro, con almeno una delle tre major ci hanno avuto a che fare. Nella scena italiana in particolare questo è ancora più vero.

Prendiamo i Ministri, in quella sera che ho accennato prima erano sotto contratto con Universal, mentre ora stanno con Warner. Il punto è che quasi tutti questi progetti partono come indipendenti per poi inevitabilmente finire nel mondo mainstream. È un male? Certo che no! È semplicemente sbagliata la definizione di partenza della musica indie. Non si possono classificare tutti i progetti che nascono come indipendenti in un unico filone musicale, non stiamo parlando di un genere vero e proprio anche se Wikipedia e la stampa musicale vogliono farcelo credere. Stiamo parlando semplicemente di persone che cominciano la loro carriera musicale in un modo meno tradizionale, in pieno stile DIY, per poi abbracciare una carriera che permetta loro di vivere di una passione che probabilmente hanno tutti quelli che stanno leggendo queste parole: la musica!

Restiamo nel contesto italiano. Nel panorama indie troviamo sia chi finisce nelle grandi testate televisive nazionali (vedi Lo Stato Sociale a Sanremo o Levante a X-Factor) sia chi ancora suona in piccoli contesti provinciali nonostante una carriera molto più lunga (vedi Bologna Violenta o Offlaga Disco Pax). 

Com’è possibile che siano raggruppati tutti nello stesso filone musicale? Un fan di Bologna Violenta inorridisce a vedere il nome di quella band accanto a quello de Lo Stato Sociale, eppure è innegabile che la stampa abbia definito indie o underground entrambi. Possiamo dire che Lo Stato Sociale non lo sia più ora che va in TV? Come se il titolo indie fosse un’importante carica da attribuire solo alle band pure e degne di questo nome? Certo, lo si può dire, posso anche essere d’accordo al riguardo, ma facendolo attribuiremmo un genere ad una band senza nemmeno fare una singola considerazione a livello musicale.

Esatto, questi tizi sono andati a Sanremo

Cos’è che accomuna tutti questi progetti musicalmente parlando? C’è un punto di unione che permetta di metterli tutti sotto lo stesso macro genere come le chitarre distorte per il Rock, il levare per il Reggae o il rapping per l’Hip Hop? Quasi sicuramente no. Il panorama è talmente vasto e così tanto variabile che ogni giorno salta fuori un progetto nuovo con caratteristiche diverse. Ognuno prende stilemi da vari generi del passato, cercando di creare qualcosa di nuovo, riuscendoci anche, ma finendo sempre per essere etichettato come indie o al limite alternative/underground. Termini che dicono tutto e niente. Facciamo altri esempi sintetizzando le definizioni di chi etichetta le band di questa scena:

  • Brunori SAS, Dente, Appino, Mannarino = cantautorato indie; 
  • Ministri, FASK, Management del Dolore Post-Operatorio = indie rock
  • Lo Stato Sociale, Levante, Calcutta, TheGiornalisti, ExOtago = indie pop (oggi anche ItPop)
  • Bologna Violenta, Il Teatro Degli Orrori = “indie” metal
  • Tre Allegri Ragazzi Morti (nei dischi più recenti), Mellow Mood = indie reggae
  • Uochi Tochi, Magellano = indie rap

E così via potrebbero essere categorizzati tutti i vari progetti più e meno famosi con sonorità estremamente diverse che comunque vengono posti in questa strana massa informe che è il panorama indie italiano. Alla luce di tutto questo è evidente che non si possa parlare di indie come genere musicale, quanto più come tendenza, come spirito, come atteggiamento nei confronti del mondo musicale contemporaneo. I punti in comune tra questi progetti difficilmente si trovano nella musica che fanno, sono quasi sempre nel come la fanno o in come la promuovono. Ad esempio, tutte le band citate usano personalmente i loro account social, restando in stretto contatto con i fan e rispondendo con parole loro; spessissimo ci tengono a scambiare qualche chiacchiera alla fine dei concerti e addirittura si scusano quando non riescono a farlo; partono sempre da semplici studi di registrazione, spesso in casa di qualcuno che possiede un computer con una DAW decente (senza questa tecnologia probabilmente non staresti leggendo questo articolo: l’indie non esisterebbe affatto). Credo che la mission di partenza di tutte queste band sia rendere un po’ più umana la musica di oggi: eliminare la distanza tra artista e pubblico grazie ai mezzi informatici che esistono ora e avvicinarsi il più possibile alla realtà attraverso testi con linguaggio attuale e comprensibile, spesso anche a costo di ignorare la metrica ed ottenere un sound volutamente Lo-Fi.

In un contesto storico come quello italiano degli ultimi dieci anni, in cui la politica non dà certezze, per i giovani il futuro è sempre più distante dal loro Paese; se si sente parlare solo di terrorismo, di scandali, violenze e mancanza di soldi, è naturale che si cerchi vicinanza nella musica. Siamo nell’epoca in cui tutto è potenzialmente falso, ascoltare della musica sincera che parli del quotidiano o che riesca in qualche modo a farci svagare è fondamentale. Come se non bastasse questa è anche l’era che probabilmente tra qualche anno cambierà il nome da età contemporanea a età digitale: stiamo vivendo anno dopo anno transizioni che segneranno un’epoca, come quella dalla carta al pdf, dagli SMS a Whatsapp, dalla piazza a Facebook e soprattutto dagli mp3 a Spotify. Tantissimi musicisti famosi non hanno ancora digerito la questione e si arrangiano come possono sperando che il mondo non cambi per davvero, ignari che ormai è troppo tardi. I progetti musicali nati a transizione avvenuta, invece, hanno cavalcato l’onda e hanno saputo sfruttare questi mezzi a loro vantaggio. Non devono preoccuparsi di vendere milioni di dischi, tanto a breve non lo farà più nessuno. Per loro è più importante avere seguito sui social, creare scalpore, possibilmente senza finire nel trash (vedi Bello Figo Gu, la cui unica differenza dalle altre band prima citate è proprio l’elemento trash). Ottenuti sufficienti like la strada è spianata e si può finire tranquillamente nei concorsi canori più famosi del bel paese o a fare da giudici ai talent show, così da mettersi da parte un po’ di soldi e reinvestirli in nuovi progetti.

Indie o no, l’importante è portare avanti la propria carriera e il proprio messaggio, chi se ne frega se qualche purista ti dà del venduto. Ormai anche per questa questione è tempo di una transizione. Accettiamo che come ogni genere musicale anche questo famigerato “indie” finisca nel mainstream nonostante sembri un controsenso visto che è proprio ciò per cui combatte. Lo spirito indipendente c’è sempre stato, anche gli hippie, i punk e gli hipster lo erano in fondo, e anche loro sono stati risucchiati dalla massa, come è naturale che sia. Tra qualche anno verrà fuori una nuova ondata di musica indie chiamata diversamente a cui succederà la stessa cosa. Trovo sia questo il vero senso di canzoni come Indi degli Eva Mon Amour, una band che purtroppo è rimasta davvero molto in ombra rispetto a quelle prima citate. Già nel 2009, con questo singolo di debutto, descrivevano le contraddizioni della scena musicale che li avrebbe in seguito inclusi e poi distrutti (ora quel progetto non esiste più). Si chiedevano:

«Tu mi dici sono indi, indi come indipendente, ma da quali sostanze? Da quali attitudini? Quali circostanze?»

Insomma, indipendente da cosa? Dal mercato? Dalla società? Ogni indie potrebbe rispondere diversamente. Sta di fatto che ormai è diventato solo un modo per cercare di distinguersi a tutti i costi dalla massa, creando una nuova massa di persone che seguono le stesse cose: un bel paradosso.